Hernia Repair for the Underserved (HRFU) – Dajabon, D.R. – Ouanaminthe, Haiti

Questa gente ha dignità.
Questa gente, in genere sporca, maleodorante, malnutrita, dall’ eta’ indefinibile, che parla male persino la propria lingua, si propone alla valutazione chirurgica con malcelato rancore, una sorta di difesa dalla loro poverta’ , quasi a voler rivendicare un’umanita’ comune che pero’ e’ costretta ad essere supportata da altri. E quegli altri siamo noi.

Questa gente chiede quindi aiuto, ma mai con servilismo, mai con pseudoaccativante adulazione.
Lo fanno con dignita’, la loro dignita’ , che e’ fatta di facce dure, erose dal sole e dalla vita dei campi agricoli, e’ fatta di sguardi tristi e rassegnati, che appena appena si illuminano con un piu’ che incerto cenno allorquando vanno via, dal tavolo operatorio.

E aiutarli con tutto il proprio cuore, energia e assoluta ed uguale professionalita’ non e’ facile.
Questa attivita’ umanitaria non e’ un gioco, non e’ qualcosa gradevole alla vista , non e’ facilmente spiegabile su un raffinato divano in belle case davanti ad un cognac, questa attivita’ umanitaria non e’ immediatamente comprensibile a chi non la vive o a chi viene per la prima volta, questa attivita ‘ umanitaria e’ un atto duro e violento, anche se di una violenza dolce.

Ed e’ per questo che siamo qui.
Non per vedere in quei volti neri e ineffabili un segno di riconoscenza, non per sentire parole grate , non per vedere una certa felicita’ nei loro occhi, noi siamo qui a fare questo perche’ e’ giusto, per noi per chi fa’ il nostro lavoro, e’ giusto per loro anche se loro, questa gente, non lo sa.

Solo per i bambini , solo per loro, questa gente e’ in ansia.
Che e’ strano considerando che ciascuno ne ha tanti, e che li fanno crescere soli, nudi, sporchi, in mezzo alla strada , a giocare con le capre, a tuffarsi nello squallore di una baracca di legno, fango e lamiera, arrostiti dal sole e inzuppati dall’ acqua torrenziale delle pioggie tropicali.
Eppure, quando ce li affidano, nelle loro mani e nei loro occhi c’ e’ speranza , c’è trepidazione, e, alla fine, c’è , forse, riconoscenza.

Mentre opero uno dei loro bambini per una complessa situazione testicolare, con rischio di perdita permanente, da una stanza attigua, che loro definivano pronto soccorso, mi vengono a chiamare perche’ un uomo sanguinava a fiotti da un avambraccio leso da un colpo di machete.
Il bimbo era sotto un’anestesia generale, ma naturalmente con le apparecchiature locali, e quindi non in controllo sicuro… Il tempo chirurgico a queste latitudini è cruciale, bisogna far presto, perche’ non sai mai fino a che punto le apparecchiature funzionano, ma non potevo lasciar morire dissanguato uno di questa gente. E cosi, ancora con il camicie di sala, cambiando i guanti entro in quella stanza: poca luce, senza aria, intrisa di afrori atavici e dell’ odore del sangue. Lo spettacolo è a dir poco agghiacciante con quell’uomo di colore ma pallido, con respiro affannoso, circondato da infermieri locali che cercavano, senza guanti, di tamponare con garze una fuoriuscita di sangue dal braccio. Dopo averli allontanati da lì e levate le garze, le ossa dell’ avambraccio sporgevano da uno squarcio totale di pelle muscoli e vasi sanguigni che gettavano fuori la vita da quell’uomo.
Ho fatto chiamare Marta,la mia assistente,  che nel frattempo tranquillizzava la madre stranita del bimbo, che, avendomi visto uscire di corsa dalla sala operatoria, temeva il peggio.
Con ferri di fortuna , una luce fioca, 40 gradi, e un ‘ aria irrespirabile, blocchiamo l’emorragia, e ricostruiamo i piani anatomici, ridando a quell’uomo la speranza…e torniamo in sala operatoria, a terminare l’operazione per quel bimbo, che non sapra’ mai quello che abbiamo fatto, ne’ chi gli ha ridato la possibilita’ di vedere un domani, i suoi figli.
E l’uomo con la ferita al braccio, va’ via , non ci guarda neanche, scortato dalla milizia locale: era solo un ladro, sorpreso a rubare, ferito da loro.
Ma anche se cosi, anche questo e’ stato giusto.

Giampiero Campanelli